QUI la settima puntata
SETTIMO GIORNO
Notte
Nella stanza del finis Africae trovano Jorge seduto a
un tavolo nel mezzo della stanza, che stava aspettando Guglielmo. A questo
punto si scopre tutta la verità sugli omicidi di quei giorni. Anni prima, Jorge
aveva rubato a Severino il veleno e, prima che Venanzio fosse riuscito ad
entrare nel finis Africae e a sottrarre il libro, aveva spennellato sulle
pagine del libro il suddetto veleno, in modo che chi volesse leggerlo,
inumidendosi le dita per sfogliare i libro, di fatto, si suicidava. Così fa
Venanzio, che, preso da un malore, era andato nelle cucine a bere un po’
d’acqua, ma pochi istanti dopo muore, infrangendo a terra la tazza. Berengario
lo trova morto e allora, temendo che si apra un’indagine, poiché nessuno doveva
entrare di notte nell’Edificio, e non sapendo cosa fare, si carica il corpo in
spalla e lo butta nell’orcio del sangue, pensando che tutti si convincessero
che era annegato. Poi, incuriosito dal libro, va nell’ospedale e lo legge. Dopo
un po’, non sentendosi molto bene, va nei balnea per alleviare il dolore, come
gli aveva suggerito più volte Severino. Ma lì muore per avvelenamento,
lasciando il libro incustodito nell’ospedale fra quelli di Severino.
L’erborista lo ritrova e, nel nartece, avvisa Guglielmo. Ma Jorge era vicino ai
due e aveva sentito tutto, così fa credere a Malachia che Severino si fosse
concesso a Berengario per il libro, e il gelosissimo bibliotecario lo uccide.
Neanche Malachia però resiste alla tentazione di leggere il libro e muore in
chiesa, mentre sta cantando. L’ultima vittima è l’Abate, che muore lentamente nel
passaggio segreto che conduce al finis Africae, perché Jorge aveva reso
inutilizzabili i meccanismi di apertura e chiusura delle porte. Il movente che
spinge Jorge ad uccidere ben sei confratelli è impedire la lettura e quindi la
divulgazione dell’unica copia del secondo libro della Poetica di Aristotele,
dove l’autore, di grandissima fama e godente di grande rispetto da tutti,
giustifica il riso e lo eleva ad arte: in questo modo, secondo Jorge, se si
accettasse e apparisse nobile l’arte dell’irrisione, essa distruggerebbe il
principio di autorità e sacralità del dogma. Guglielmo accusa Jorge di essere
un assassino e poi addirittura il diavolo, ma il vecchio è sicuro di essere
nel giusto.
Notte
Allora, accortosi che ormai è condannato, Jorge
strappa e mangia ad una ad una le pagine del libro. Poi, spento il lume, scappa
lontano da quella stanza, mentre Guglielmo ed Adso escono a fatica dal finis
Africae. Lo rincorrono e lo trovano per terra, gli si avventano con impeto ma
quello riesce a prendere il lume e a buttarlo su un ammasso di libri. Così in
poco tempo tutta la biblioteca va in fiamme, mentre tutti i famigli corrono di
qua e di là concludendo poco e niente. In men che non si dica tutta l’abbazia,
che è costruita in buona parte in legno, viene a contatto con le fiamme, grazie
anche ad un vento che contribuisce ad alimentare le fiamme.
ULTIMO FOLIO
L’abbazia arde per tre giorni e tre notti. Guglielmo
ed Adso, giunti a Monaco, dove sarebbe arrivato l’imperatore, si separano per
sempre e Guglielmo, oltre a dargli molti buoni consigli per gli studi, gli
regala le lenti che gli aveva fabbricato Nicola. Guglielmo da Baskerville è
morto durante la grande peste che ha investito l’Europa intorno al 1350. Anni
dopo l’incendio dell’abbazia, Adso vi è tornato per rivisitare ciò che vi era
rimasto, che non era molto: è riuscito a trovare dei fogli che ha custodito
gelosamente come reliquie fino alla morte.
AMBIENTAZIONE STORICA E GEOGRAFICA
Essendo un manoscritto in cui l’autore
lascia ai posteri testimonianza dei fatti accadutigli nel periodo della sua
giovinezza, la durata del filone principale (cioè quello in cui Adso si accinge
a scrivere: «Giunto
al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo […]
mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e
tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere») è imprecisata («possiamo congetturare che il
manoscritto sia stato stilato negli ultimi dieci o vent’anni del XIV secolo», come ci dice Eco nell’introduzione), mentre i fatti
che lui racconta si svolgono verso la fine del novembre 1327 e hanno una durata
di sette giorni. La narrazione è suddivisa per giorni e ogni giorno è diviso in
periodi corrispondenti alle ore liturgiche secondo la regola benedettina.
Il contesto storico è ricostruito molto
bene: nel 1314 a Francoforte viene eletto supremo reggitore dell’impero
Ludovico di Baviera, mentre contemporaneamente viene anche eletto imperatore Federico
d’Austria. Due anni dopo diventa papa Giovanni XXII,
che non riconosce nessuno dei due come imperatore e, quando Ludovico batte
Federico, il papa lo scomunica; immediatamente l’imperatore denuncia il papa
come eretico. Inoltre in quegli anni l’ordine francescano, nelle figure degli
“spirituali”, voleva ritornare alla purezza originale e perciò fanno loro
l’ideale di povertà, affermando la povertà di Cristo, e condannano la ricchezza
terrena della chiesa. Questo a Giovanni XXII non
piacque affatto e li dichiarò eretici perché rivendicava il diritto di eleggere
i vescovi, che aveva l’imperatore. Alché Ludovico appoggiò le tesi degli
spirituali, facendoseli amici per contrastare il papa. Adso segue in Italia il
padre, che era uno dei baroni fedeli all’imperatore, perché fosse presente
all’incoronazione dell’imperatore a Roma, mentre alla fine dell’avventura
all’abbazia Adso e Guglielmo si recano a Monaco, intuendo che l’imperatore
sarebbe giunto in breve tempo lì, poiché, dopo l’incoronazione, era stato cacciato
da Roma e anche a Pisa aveva sempre meno alleati. Negli anni successivi,
Ludovico vide l’alleanza dei signori ghibellini disfarsi e l’anno dopo
l’antipapa che aveva nominato si era arreso al papa.
Gli eventi che si raccontano avvengono
in una non meglio precisata ricca abbazia benedettina dell’Italia
settentrionale, «in
una terra […] i cui signori erano fedeli all’impero e dove
gli abati del nostro ordine di comune accordo si opponevano al papa eretico e
corrotto.» Dalle informazioni che ci fornisce Adso
quando va a cercare i tartufi con Severino («Il mattino del nostro arrivo, quando
già eravamo tra i monti, a certi tornanti, era ancora possibile scorgere, a non
più di dieci miglia e forse meno, il mare»)
ne traiamo che l’abbazia deve trovarsi da qualche parte della Liguria, poiché
solo in questa regione settentrionale c’è il mare a breve distanza dalle
montagne (mentre in Veneto ed Emilia Romagna c’è la pianura). È anche lo stesso
Eco che, nell’introduzione, dice che «le congetture permettono di disegnare una
zona imprecisa tra Pomposa e Conques, con ragionevoli probabilità che il luogo
sorgesse lungo il dorsale appenninico, tra Piemonte, Liguria e Francia». L’abbazia, circondata da una cinta di mura, è
situata su un pianoro sulla sommità di un monte; è composta da vari edifici, il
più importante dei quali per la vita dell’abbazia è l’Edificio, dove al primo
piano ci sono le cucine e il refettorio, al secondo piano c’è lo scriptorium e
al terzo c’è la biblioteca, a cui poteva accedere solo il bibliotecario e il
suo aiutante (questo solo in teoria). Inoltre c’erano l’orto e il giardino
botanico, i balnea, l’ospedale, la chiesa, il chiostro, la casa dell’abate, il
dormitorio e la casa dei pellegrini; sul lato orientale c’erano una serie di
quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine. L’intero
complesso era orientato secondo precisi dettami architettonici. Nella
narrazione prevalgono i luoghi chiusi e un ruolo particolare è svolto dalla
biblioteca, posto su cui è puntata la maggiore attenzione per tutta la durata
della vicenda.
Qui sotto è presente lo schema della disposizione
degli edifici dell’abbazia, presente nella prima pagina del libro.
La complicata costruzione della biblioteca è spiegata
nel corso del riassunto.
PERSONAGGI
Adso da Melk
Di origini tedesche, è il narratore
interno. All’epoca degli avvenimenti è un novizio benedettino giunto in Italia
insieme al padre, barone fedele all’imperatore, perché fosse presente
all’incoronazione di Ludovico a Roma, ma affinché non oziasse, su consiglio di
Marsilio da Padova, segue un dotto francescano, Guglielmo da Baskerville, nella
missione di mediare tra una delegazione pontificia ed una francescana,
facendogli da scrivano e da discepolo. Di questo suo maestro ha molta
ammirazione sia per l’acutezza della mente che per il fascino della parola, ma
quando non lo conosce ancora bene, lo critica per i momenti di totale
inattività, mentre in seguito capisce che «quanto più il suo corpo era disteso, tanto
più la sua mente era in effervescenza.» Dopo
aver peccato con la ragazza, il suo animo è combattuto tra due sentimenti
opposti: da una parte «il
mio intelletto la sapeva fomite di peccato»,
dall’altra «il
mio appetito sensitivo l’avvertiva come ricettacolo di ogni grazia.» È curioso, ha molta voglia di apprendere, come quando
non ha pace finché trova Ubertino e gli chiede di raccontargli di fra Dolcino;
in certe occasioni è anche impulsivo, come quando vorrebbe salvare la ragazza
dagli arcieri e Guglielmo lo trattiene più di una volta. Si può notare che nel
corso della storia partecipano due Adso: l’actor, giovane e che non capisce
ancora bene certe cose («[..] concluse
Guglielmo, che era troppo filosofo per la mia mente adolescente»), e l’auctor, anziano che usa il libro anche come
sfogo «per
liberare la mia memoria appassita e stanca di visioni che per tutta la vita
l’hanno affannata»: naturalmente solo quest’ultimo è
onnisciente e comprende comportamenti e azioni che l’Adso giovane non
si spiegava.
Guglielmo da Baskerville
È il protagonista del racconto. È un
uomo alto e magro, ha occhi acuti e penetranti, il naso affilato e un po’
adunco, sopracciglia folte e bionde, il viso allungato e coperto di efelidi; ha
circa cinquant’anni, ma nonostante questo si muove con grande agilità. È molto
dotto in qualsiasi campo, dall’erboristeria alla filosofia, dal greco alla
teologia. Anni prima era stato inquisitore, ma poi aveva abbandonato la sua
carriera per vari motivi, tra cui il fatto che non gli piaceva torturare gli
accusati perché, dice, «sotto
tortura vivi come sotto l’impero di erbe che danno visioni» e, oltre a dire la verità, dicono anche ciò che
ritengono che l’inquisitore voglia sentire: quindi l’inquisitore non cerca la
verità, ma una persona da incolpare e poi bruciare. Dall’esperienza di inquisitore
derivano le sue grandi capacità deduttive, tanto che il giorno in cui arriva
all’abbazia, incontrando il cellario e diversi famigli provenienti di là,
indovina che stavano cercando Brunello, il miglior cavallo della scuderia.
Purtroppo in questa vicenda la sua prontezza di deduzioni non è così “pronta”,
e non riesce ad impedire che, oltre ad Adelmo, vengano uccisi altri cinque
monaci prima di scoprire l’assassino. Comunque da solo non avrebbe concluso
granché: infatti è Alinardo che gli svela come entrare nell’Edificio di notte,
è Venanzio che gli svela come entrare nel finis Africae attraverso un rompicapo
cifrato, è grazie ad Adso che gli viene in mente cosa significasse quel
messaggio; d’altra parte è anche vero che è lui a decifrare il suddetto messaggio,
è lui a scoprire la disposizione delle stanze della biblioteca guardando
l’Edificio dall’esterno, è lui a fare le ipotesi giuste, ed è infine lui a
smascherare il colpevole. Ma il suo compito primario non era quello di indagare
in queste misteriose morti, bensì era stato inviato dall’imperatore in
quell’abbazia per fare da mediatore tra una delegazione francescana e una
papale. Egli rappresenta gli innovatori.
Jorge da Burgos
«Un
monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il
pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era ceco. La voce era ancora
maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso
dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi
muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono
della voce era invece di chi possiede solo il dono della profezia.» Egli
è il più vecchio tra i monaci dell’abbazia, dopo Alinardo, e conosceva tutti
segreti dell’abbazia meglio di chiunque altro, anche dell’abate. Fu lui a far
eleggere Abbone come abate e Roberto da Bobbio e Malachia come bibliotecari,
che erano ai suoi ordini, per continuare a governare segretamente l’abbazia per
quarant’anni. È per difendere l’inviolabilità del II libro
della poetica di Aristotele, unica copia al mondo, che giustifica e apprezza il
riso, che Jorge lo cosparge di veleno e provoca la morte di tutti coloro che lo
hanno sfogliato. Tecnicamente non è lui l’assassino, in quanto chi sfogliava le
pagine del libro ingoiava il veleno suicidandosi, e lui non si ritiene tale
quando Guglielmo lo accusa, ma accetta il rischio della dannazione. Rappresenta
i conservatori.
Bernardo Gui
È un personaggio realmente esistito,
noto inquisitore che scrisse un manuale per agevolare i suoi colleghi, la
“Practica officii inquisitionis heretice pravitatis”, che viene anche citata
nel capitolo vespri del terzo giorno. Nel romanzo è al tempo stesso al comando
dei soldati francesi e membro della legazione pontificia. Ecco come lo descrive
Adso la prima volta che lo vede: «Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi,
capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece
balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che
nell’esprimerli a bella posta».
Durante la sua permanenza all’abbazia viene incaricato di scoprire l’assassino
e fa confessare a Salvatore crimini che non aveva commesso. Infatti il suo
obiettivo non è scoprire la verità, ma trovare un colpevole a tutti i costi,
praticando la tortura. Lui rappresenta la vera mala pianta dell’epoca, che non
è la genie di fraticelli eretici, ma è chi mandava al rogo delle persone
innocenti, vedendo streghe dappertutto: per questo è l’acerrimo nemico
di Guglielmo.
Personaggi minori
L’abate Abbone, gli altri monaci dell’abbazia, tra cui Remigio, il cellario, Salvatore, Nicola, mastro vetraio, Severino,
erborista, Malachia, il bibliotecario, Bencio, Berengario, il gruppo degli italiani (costituito da Alinardo, il più vecchio di tutta l’abbazia, Aymaro, Pietro e Pacifico), Venanzio, i membri delle due legazioni, tra cui spiccano Michele da Cesena e il cardinal
Bertrando e i centocinquanta famigli che
lavorano all’abbazia.
LINGUAGGIO E STILE
Umberto Eco, nel primo capitolo del
libro intitolato “Naturalmente, un manoscritto” (quel “naturalmente”, in tono
ironico, fa già intuire che sia una finzione stilistica), afferma di aver
tradotto in italiano una traduzione di un manoscritto del XIV secolo
scritto da un certo Adso da Melk, ma noi sappiamo che in realtà è solo un
artifizio stilistico per parlare nel Medioevo,
non solo del Medioevo.
Il tono predominante è drammatico e referenziale; solo
a volte esso diviene ironico, per opera di Guglielmo (la famosa comicità
inglese). La sintassi è prevalentemente semplice, mentre il lessico è più
complesso: nel testo sono presenti arcaismi, termini insoliti, astrusi termini
religiosi o propri di altre discipline specifiche; inoltre si trovano frasi in
latino, tedesco e spagnolo, e tutte queste lingue si trovano mescolate insieme
nelle parole di Salvatore.
Nel romanzo coesistono parti narrative che si
alternano a lunghe digressioni di carattere filosofico, teologico e storico.
Sono frequenti le descrizioni di scene ma anche di personaggi, molto lunghe,
come quella del sogno fatto da Adso. Sono presenti in egual misura il discorso
diretto e quello indiretto, ma, mentre alcuni capitoli sono quasi
esclusivamente raccontati (per esempio quello in cui Adso fa delle riflessioni
sulla storia del suo ordine e sul destino dei libri o dove si riassumono i
principali eventi del secolo), in altri ci sono solo dialoghi.
Eco ha usato la tecnica dell’intertestualità, che
consiste nella ripresa, spinta fino alla citazione più o meno letterale, di
espressioni o brani ricavati da altri testi, di varia origine e provenienza,
come l’Apocalisse, i Vangeli, il Cantico dei Cantici e diversi altri filosofi
antichi e medievali.
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