mercoledì 4 maggio 2016

Un romanzo a puntate - IL NOME DELLA ROSA - Ultima puntata (SETTIMO GIORNO) + personaggi + stile


QUI la settima puntata

SETTIMO GIORNO

Notte
Nella stanza del finis Africae trovano Jorge seduto a un tavolo nel mezzo della stanza, che stava aspettando Guglielmo. A questo punto si scopre tutta la verità sugli omicidi di quei giorni. Anni prima, Jorge aveva rubato a Severino il veleno e, prima che Venanzio fosse riuscito ad entrare nel finis Africae e a sottrarre il libro, aveva spennellato sulle pagine del libro il suddetto veleno, in modo che chi volesse leggerlo, inumidendosi le dita per sfogliare i libro, di fatto, si suicidava. Così fa Venanzio, che, preso da un malore, era andato nelle cucine a bere un po’ d’acqua, ma pochi istanti dopo muore, infrangendo a terra la tazza. Berengario lo trova morto e allora, temendo che si apra un’indagine, poiché nessuno doveva entrare di notte nell’Edificio, e non sapendo cosa fare, si carica il corpo in spalla e lo butta nell’orcio del sangue, pensando che tutti si convincessero che era annegato. Poi, incuriosito dal libro, va nell’ospedale e lo legge. Dopo un po’, non sentendosi molto bene, va nei balnea per alleviare il dolore, come gli aveva suggerito più volte Severino. Ma lì muore per avvelenamento, lasciando il libro incustodito nell’ospedale fra quelli di Severino. L’erborista lo ritrova e, nel nartece, avvisa Guglielmo. Ma Jorge era vicino ai due e aveva sentito tutto, così fa credere a Malachia che Severino si fosse concesso a Berengario per il libro, e il gelosissimo bibliotecario lo uccide. Neanche Malachia però resiste alla tentazione di leggere il libro e muore in chiesa, mentre sta cantando. L’ultima vittima è l’Abate, che muore lentamente nel passaggio segreto che conduce al finis Africae, perché Jorge aveva reso inutilizzabili i meccanismi di apertura e chiusura delle porte. Il movente che spinge Jorge ad uccidere ben sei confratelli è impedire la lettura e quindi la divulgazione dell’unica copia del secondo libro della Poetica di Aristotele, dove l’autore, di grandissima fama e godente di grande rispetto da tutti, giustifica il riso e lo eleva ad arte: in questo modo, secondo Jorge, se si accettasse e apparisse nobile l’arte dell’irrisione, essa distruggerebbe il principio di autorità e sacralità del dogma. Guglielmo accusa Jorge di essere un assassino e poi addirittura il diavolo, ma il vecchio è sicuro di essere nel giusto.
Notte
Allora, accortosi che ormai è condannato, Jorge strappa e mangia ad una ad una le pagine del libro. Poi, spento il lume, scappa lontano da quella stanza, mentre Guglielmo ed Adso escono a fatica dal finis Africae. Lo rincorrono e lo trovano per terra, gli si avventano con impeto ma quello riesce a prendere il lume e a buttarlo su un ammasso di libri. Così in poco tempo tutta la biblioteca va in fiamme, mentre tutti i famigli corrono di qua e di là concludendo poco e niente. In men che non si dica tutta l’abbazia, che è costruita in buona parte in legno, viene a contatto con le fiamme, grazie anche ad un vento che contribuisce ad alimentare le fiamme.
ULTIMO FOLIO
L’abbazia arde per tre giorni e tre notti. Guglielmo ed Adso, giunti a Monaco, dove sarebbe arrivato l’imperatore, si separano per sempre e Guglielmo, oltre a dargli molti buoni consigli per gli studi, gli regala le lenti che gli aveva fabbricato Nicola. Guglielmo da Baskerville è morto durante la grande peste che ha investito l’Europa intorno al 1350. Anni dopo l’incendio dell’abbazia, Adso vi è tornato per rivisitare ciò che vi era rimasto, che non era molto: è riuscito a trovare dei fogli che ha custodito gelosamente come reliquie fino alla morte.
AMBIENTAZIONE STORICA E GEOGRAFICA
Essendo un manoscritto in cui l’autore lascia ai posteri testimonianza dei fatti accadutigli nel periodo della sua giovinezza, la durata del filone principale (cioè quello in cui Adso si accinge a scrivere: «Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo […] mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere») è imprecisata («possiamo congetturare che il manoscritto sia stato stilato negli ultimi dieci o vent’anni del XIV secolo», come ci dice Eco nell’introduzione), mentre i fatti che lui racconta si svolgono verso la fine del novembre 1327 e hanno una durata di sette giorni. La narrazione è suddivisa per giorni e ogni giorno è diviso in periodi corrispondenti alle ore liturgiche secondo la regola benedettina.
Il contesto storico è ricostruito molto bene: nel 1314 a Francoforte viene eletto supremo reggitore dell’impero Ludovico di Baviera, mentre contemporaneamente viene anche eletto imperatore Federico d’Austria. Due anni dopo diventa papa Giovanni XXII, che non riconosce nessuno dei due come imperatore e, quando Ludovico batte Federico, il papa lo scomunica; immediatamente l’imperatore denuncia il papa come eretico. Inoltre in quegli anni l’ordine francescano, nelle figure degli “spirituali”, voleva ritornare alla purezza originale e perciò fanno loro l’ideale di povertà, affermando la povertà di Cristo, e condannano la ricchezza terrena della chiesa. Questo a Giovanni XXII non piacque affatto e li dichiarò eretici perché rivendicava il diritto di eleggere i vescovi, che aveva l’imperatore. Alché Ludovico appoggiò le tesi degli spirituali, facendoseli amici per contrastare il papa. Adso segue in Italia il padre, che era uno dei baroni fedeli all’imperatore, perché fosse presente all’incoronazione dell’imperatore a Roma, mentre alla fine dell’avventura all’abbazia Adso e Guglielmo si recano a Monaco, intuendo che l’imperatore sarebbe giunto in breve tempo lì, poiché, dopo l’incoronazione, era stato cacciato da Roma e anche a Pisa aveva sempre meno alleati. Negli anni successivi, Ludovico vide l’alleanza dei signori ghibellini disfarsi e l’anno dopo l’antipapa che aveva nominato si era arreso al papa.
Gli eventi che si raccontano avvengono in una non meglio precisata ricca abbazia benedettina dell’Italia settentrionale, «in una terra […] i cui signori erano fedeli all’impero e dove gli abati del nostro ordine di comune accordo si opponevano al papa eretico e corrotto.» Dalle informazioni che ci fornisce Adso quando va a cercare i tartufi con Severino («Il mattino del nostro arrivo, quando già eravamo tra i monti, a certi tornanti, era ancora possibile scorgere, a non più di dieci miglia e forse meno, il mare») ne traiamo che l’abbazia deve trovarsi da qualche parte della Liguria, poiché solo in questa regione settentrionale c’è il mare a breve distanza dalle montagne (mentre in Veneto ed Emilia Romagna c’è la pianura). È anche lo stesso Eco che, nell’introduzione, dice che «le congetture permettono di disegnare una zona imprecisa tra Pomposa e Conques, con ragionevoli probabilità che il luogo sorgesse lungo il dorsale appenninico, tra Piemonte, Liguria e Francia». L’abbazia, circondata da una cinta di mura, è situata su un pianoro sulla sommità di un monte; è composta da vari edifici, il più importante dei quali per la vita dell’abbazia è l’Edificio, dove al primo piano ci sono le cucine e il refettorio, al secondo piano c’è lo scriptorium e al terzo c’è la biblioteca, a cui poteva accedere solo il bibliotecario e il suo aiutante (questo solo in teoria). Inoltre c’erano l’orto e il giardino botanico, i balnea, l’ospedale, la chiesa, il chiostro, la casa dell’abate, il dormitorio e la casa dei pellegrini; sul lato orientale c’erano una serie di quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine. L’intero complesso era orientato secondo precisi dettami architettonici. Nella narrazione prevalgono i luoghi chiusi e un ruolo particolare è svolto dalla biblioteca, posto su cui è puntata la maggiore attenzione per tutta la durata della vicenda.
Qui sotto è presente lo schema della disposizione degli edifici dell’abbazia, presente nella prima pagina del libro.

La complicata costruzione della biblioteca è spiegata nel corso del riassunto.
PERSONAGGI

Adso da Melk
Di origini tedesche, è il narratore interno. All’epoca degli avvenimenti è un novizio benedettino giunto in Italia insieme al padre, barone fedele all’imperatore, perché fosse presente all’incoronazione di Ludovico a Roma, ma affinché non oziasse, su consiglio di Marsilio da Padova, segue un dotto francescano, Guglielmo da Baskerville, nella missione di mediare tra una delegazione pontificia ed una francescana, facendogli da scrivano e da discepolo. Di questo suo maestro ha molta ammirazione sia per l’acutezza della mente che per il fascino della parola, ma quando non lo conosce ancora bene, lo critica per i momenti di totale inattività, mentre in seguito capisce che «quanto più il suo corpo era disteso, tanto più la sua mente era in effervescenza.» Dopo aver peccato con la ragazza, il suo animo è combattuto tra due sentimenti opposti: da una parte «il mio intelletto la sapeva fomite di peccato», dall’altra «il mio appetito sensitivo l’avvertiva come ricettacolo di ogni grazia.» È curioso, ha molta voglia di apprendere, come quando non ha pace finché trova Ubertino e gli chiede di raccontargli di fra Dolcino; in certe occasioni è anche impulsivo, come quando vorrebbe salvare la ragazza dagli arcieri e Guglielmo lo trattiene più di una volta. Si può notare che nel corso della storia partecipano due Adso: l’actor, giovane e che non capisce ancora bene certe cose («[..] concluse Guglielmo, che era troppo filosofo per la mia mente adolescente»), e l’auctor, anziano che usa il libro anche come sfogo «per liberare la mia memoria appassita e stanca di visioni che per tutta la vita l’hanno affannata»: naturalmente solo quest’ultimo è onnisciente e comprende comportamenti e azioni che l’Adso giovane non si spiegava.

Guglielmo da Baskerville
È il protagonista del racconto. È un uomo alto e magro, ha occhi acuti e penetranti, il naso affilato e un po’ adunco, sopracciglia folte e bionde, il viso allungato e coperto di efelidi; ha circa cinquant’anni, ma nonostante questo si muove con grande agilità. È molto dotto in qualsiasi campo, dall’erboristeria alla filosofia, dal greco alla teologia. Anni prima era stato inquisitore, ma poi aveva abbandonato la sua carriera per vari motivi, tra cui il fatto che non gli piaceva torturare gli accusati perché, dice, «sotto tortura vivi come sotto l’impero di erbe che danno visioni» e, oltre a dire la verità, dicono anche ciò che ritengono che l’inquisitore voglia sentire: quindi l’inquisitore non cerca la verità, ma una persona da incolpare e poi bruciare. Dall’esperienza di inquisitore derivano le sue grandi capacità deduttive, tanto che il giorno in cui arriva all’abbazia, incontrando il cellario e diversi famigli provenienti di là, indovina che stavano cercando Brunello, il miglior cavallo della scuderia. Purtroppo in questa vicenda la sua prontezza di deduzioni non è così “pronta”, e non riesce ad impedire che, oltre ad Adelmo, vengano uccisi altri cinque monaci prima di scoprire l’assassino. Comunque da solo non avrebbe concluso granché: infatti è Alinardo che gli svela come entrare nell’Edificio di notte, è Venanzio che gli svela come entrare nel finis Africae attraverso un rompicapo cifrato, è grazie ad Adso che gli viene in mente cosa significasse quel messaggio; d’altra parte è anche vero che è lui a decifrare il suddetto messaggio, è lui a scoprire la disposizione delle stanze della biblioteca guardando l’Edificio dall’esterno, è lui a fare le ipotesi giuste, ed è infine lui a smascherare il colpevole. Ma il suo compito primario non era quello di indagare in queste misteriose morti, bensì era stato inviato dall’imperatore in quell’abbazia per fare da mediatore tra una delegazione francescana e una papale. Egli rappresenta gli innovatori.

Jorge da Burgos
«Un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era ceco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possiede solo il dono della profezia.» Egli è il più vecchio tra i monaci dell’abbazia, dopo Alinardo, e conosceva tutti segreti dell’abbazia meglio di chiunque altro, anche dell’abate. Fu lui a far eleggere Abbone come abate e Roberto da Bobbio e Malachia come bibliotecari, che erano ai suoi ordini, per continuare a governare segretamente l’abbazia per quarant’anni. È per difendere l’inviolabilità del II libro della poetica di Aristotele, unica copia al mondo, che giustifica e apprezza il riso, che Jorge lo cosparge di veleno e provoca la morte di tutti coloro che lo hanno sfogliato. Tecnicamente non è lui l’assassino, in quanto chi sfogliava le pagine del libro ingoiava il veleno suicidandosi, e lui non si ritiene tale quando Guglielmo lo accusa, ma accetta il rischio della dannazione. Rappresenta i conservatori.

Bernardo Gui
È un personaggio realmente esistito, noto inquisitore che scrisse un manuale per agevolare i suoi colleghi, la “Practica officii inquisitionis heretice pravitatis”, che viene anche citata nel capitolo vespri del terzo giorno. Nel romanzo è al tempo stesso al comando dei soldati francesi e membro della legazione pontificia. Ecco come lo descrive Adso la prima volta che lo vede: «Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta». Durante la sua permanenza all’abbazia viene incaricato di scoprire l’assassino e fa confessare a Salvatore crimini che non aveva commesso. Infatti il suo obiettivo non è scoprire la verità, ma trovare un colpevole a tutti i costi, praticando la tortura. Lui rappresenta la vera mala pianta dell’epoca, che non è la genie di fraticelli eretici, ma è chi mandava al rogo delle persone innocenti, vedendo streghe dappertutto: per questo è l’acerrimo nemico di Guglielmo.

Personaggi minori
L’abate Abbone, gli altri monaci dell’abbazia, tra cui Remigio, il cellario, Salvatore, Nicola, mastro vetraio, Severino, erborista, Malachia, il bibliotecario, Bencio, Berengario, il gruppo degli italiani (costituito da Alinardo, il più vecchio di tutta l’abbazia, Aymaro, Pietro e Pacifico), Venanzio, i membri delle due legazioni, tra cui spiccano Michele da Cesena e il cardinal Bertrando e i centocinquanta famigli che lavorano all’abbazia.

LINGUAGGIO E STILE

Umberto Eco, nel primo capitolo del libro intitolato “Naturalmente, un manoscritto” (quel “naturalmente”, in tono ironico, fa già intuire che sia una finzione stilistica), afferma di aver tradotto in italiano una traduzione di un manoscritto del XIV secolo scritto da un certo Adso da Melk, ma noi sappiamo che in realtà è solo un artifizio stilistico per parlare nel Medioevo, non solo del Medioevo.
Il tono predominante è drammatico e referenziale; solo a volte esso diviene ironico, per opera di Guglielmo (la famosa comicità inglese). La sintassi è prevalentemente semplice, mentre il lessico è più complesso: nel testo sono presenti arcaismi, termini insoliti, astrusi termini religiosi o propri di altre discipline specifiche; inoltre si trovano frasi in latino, tedesco e spagnolo, e tutte queste lingue si trovano mescolate insieme nelle parole di Salvatore.
Nel romanzo coesistono parti narrative che si alternano a lunghe digressioni di carattere filosofico, teologico e storico. Sono frequenti le descrizioni di scene ma anche di personaggi, molto lunghe, come quella del sogno fatto da Adso. Sono presenti in egual misura il discorso diretto e quello indiretto, ma, mentre alcuni capitoli sono quasi esclusivamente raccontati (per esempio quello in cui Adso fa delle riflessioni sulla storia del suo ordine e sul destino dei libri o dove si riassumono i principali eventi del secolo), in altri ci sono solo dialoghi.
Eco ha usato la tecnica dell’intertestualità, che consiste nella ripresa, spinta fino alla citazione più o meno letterale, di espressioni o brani ricavati da altri testi, di varia origine e provenienza, come l’Apocalisse, i Vangeli, il Cantico dei Cantici e diversi altri filosofi antichi e medievali.


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