La Direttrice
Gabriella Corbo
La prima guerra mondiale della storia sta entrando nel suo quinto mese. Milioni di soldati sono rintanati in trincee malamente scavate nelle campagne di mezza Europa. In molti punti del fronte gli eserciti avversari sono schierati a poche decine di metri di distanza, a portata di voce. Le condizioni di vita sono infernali: il freddo gela le ossa; le trincee sono allagate; i soldati condividono lo spazio angusto con ratti e parassiti; in mancanza di latrine adeguate, gli escrementi sono sparsi dappertutto; gli uomini dormono in piedi, per evitare di sdraiarsi nel fango putrido dei loro alloggiamenti provvisori; i cadaveri dei soldati uccisi rimangono a decomporsi nella «terra di nessuno», a poche decine di metri dai compagni sopravvissuti, che non possono recuperarli e dar loro dignitosa sepoltura. Mentre le tenebre calano sul campo di battaglia, accade qualcosa di straordinario. I soldati tedeschi accendono le candele sulle migliaia di minuscoli alberi di Natale che sono stati inviati al fronte per offrire conforto ai combattenti, e cominciano a cantare i canti di Natale: per primo, Astro del ciel, poi molti altri. I soldati inglesi sono sbigottiti: uno di loro, affacciatosi oltre il bordo della trincea, dice che le linee nemiche illuminate sembrano «le luci della ribalta di un teatro». E rispondono con un applauso, dapprima timido, poi sempre più scrosciante. Poi cominciano a intonare le proprie carole come replica ai canti dei nemici tedeschi, che li applaudono a loro volta. Alcuni uomini di entrambi gli schieramenti sgusciano fuori dalle trincee e attraversano la terra di nessuno, avvicinandosi al nemico. Centinaia li seguono. La voce si diffonde per tutto il fronte, e migliaia di uomini escono dalle trincee. Si scambiano strette di mano,sigarette, dolci. Si mostrano l’un l’altro le foto dei propri cari. Si raccontano dei luoghi da dove vengono, ricordano i Natali passati. Si scambiano battute sull’assurdità della guerra. La mattina dopo, quando il sole natalizio sorge sui campi di battaglia europei, decine di migliaia di uomini (secondo alcuni, addirittura centomila) stanno conversando tranquillamente fra loro. Solo ventiquattr’ore prima erano nemici, ora si aiutano a seppellire i compagni caduti. Le cronache del tempo registrarono anche numerosi incontri di calcio improvvisati. Perfino gli ufficiali di prima linea parteciparono all’evento, ma quando la notizia giunse agli alti comandi nelle retrovie i generali assunsero una posizione assai meno tollerante. Temendo che quell’atmosfera natalizia potesse minare la voglia di combattere dei loro sottoposti, presero immediati provvedimenti per far rientrare le truppe nei ranghi. Così, la surreale «tregua natalizia» finì improvvisamente com’era cominciata.
Certo, non fu che un battito di ciglia in una guerra che si sarebbe conclusa quattro anni dopo, nel novembre 1918, e che sarebbe costata 8 milioni e mezzo di morti fra i soli militari, passando agli annali come la più grande carneficina della storia, almeno fino a quel momento. Ma per poche, brevi ore, non più di un giorno, decine di migliaia di soldati uscirono dai ranghi, spezzando non solo la catena di comando ma anche i vincoli di fedeltà alla patria, e dimostrando di essere, innanzitutto, uomini. Nel bel mezzo del terrore e dei massacri, fecero un coraggioso passo indietro rispetto ai propri obblighi istituzionali, per esprimersi a vicenda un sentimento di compassione e onorare la vita altrui. Si suppone che il campo di battaglia sia il luogo in cui l’eroismo si manifesta attraverso la disponibilità a uccidere ed essere uccisi per una nobile causa, che trascende la vita quotidiana. Questi uomini, invece, scelsero di mostrare un altro tipo di coraggio: si avvicinarono reciprocamente al dolore personale, cercando sollievo nella condivisione della sofferenza. Attraversando la terra di nessuno, si mischiarono gli uni con gli altri. La forza di confortarsi a vicenda scaturiva da un profondo e taciuto senso di vulnerabilità individuale e da un altrettanto profondo desiderio di comunione con i propri simili. Fu, senza dubbio, un momento di altissima umanità. Sebbene all’epoca sia stato raccontato come una stranezza, a distanza di un secolo ricordiamo questo episodio come un nostalgico interludio in un mondo che abbiamo finito per considerare in termini molto diversi. (La civiltà dell'empatia - Jeremy Rifkin)
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