domenica 12 maggio 2013

Un racconto di Luana Musumeci: Pallidi e assorti, noi sposi derelitti


Ieri c'è stata la premiazione del concorso CRESCERE IN COMPAGNIA. Purtroppo sul podio non è salita la nostra Luana Musumeci (V Iter), per cui tutti noi facevamo il tifo. Ma il suo racconto è talmente bello, ORIGINALE e poetico che riteniamo giusto pubblicarlo qui, per condividere con i nostri  lettori il talento di Luana. 

Eccolo, quindi, e buona lettura!

Pallidi e assorti, noi sposi derelitti


La città di Genova: inevitabilmente legata al mare, suo unico ed eterno amore, suo sposo lontano.
Un amore bizzarro, un amore che, secondo la leggenda, ha teso una trappola a Ianua, città-donna, e ha permesso che si macchiasse dei peccati umani.
Una storia mai ascoltata, che proprio Ianua decide di rivelare.
La leggenda parla di lei, e di quanto fosse grande il suo amore per il mare, di come questo amore morboso, con le sue sciocche gelosie e le sue infondate illusioni, l’abbia spinta oltre.
Il mare del porto genovese, con il suo strano colore, ricorderà per sempre a Ianua ciò di cui si è macchiata, ciò che tutt’oggi le permette di confondersi perfettamente fra gli umani: tutti peccatori, tutti con amari errori alle spalle.

Forgiata dal mare, nutrita dal sudore di uomini che del porto e delle barche fecero mestiere; sola, nel mio abisso profumato di salsedine, fra i gorgoglii inquieti delle acque ed i silenzi austeri delle montagne.
Nei terrazzamenti il basilico odoroso, nei prati incolti il giallo acceso delle ginestre; terra di sole, di un mare azzurro come il cielo. Terra che incute timore, quando infuria la tempesta e ferisce la sua pioggia, graffiante, come gli artigli di un grifone.
Avrete già sentito parlare di me, della Repubblica che non riconosce superiori: sono Genova; sono la Superba.

Cammino rasente a questo muro che per lunghezza pare infinito e che per altezza, di primo acchito, è almeno due volte più grande di me; lungo tutto il suo seguitarsi cocci aguzzi di bottiglia riflettono l’intrecciarsi di luci vermiglie e scarlatte, figlie di un’alba puntuale e silenziosa.
All’improvviso le mie narici vengono stuzzicate da un profumo così buono da indurmi a fermare la rapida marcia verso il mare: questa è senza dubbio la focaccia di uno dei forni che prima dell’alba cuociono i loro impasti. Hanno già aperto: non sia mai che perdano un cliente!
Mi piacerebbe essere la prima ad assaporare la focaccia ancora calda, profumata, appetitosa, ma non posso proprio: devo correre al porto, verso il mio mare, con le navi che partono e quelle che attraccano.
Il motivo del mio vanto è anche la ragione della mia spossatezza e della mia eccessiva irritabilità; la città è il porto, e dà il suo bel da fare ogni giorno.
Per fortuna non sono molto lontana dalla mia meta: mi basta attraversare solo qualche breve ed angusto carruggio, nel dedalo del mio centro storico, per raggiungere Via San Lorenzo.
Qui, le saracinesche grigie di qualche bar e di qualche tabacchino sono già sollevate per soddisfare le richieste dei lavoratori più mattinieri: c’è chi ha voglia di un caffè, chi di un cornetto, o chi semplicemente ha bisogno di un biglietto dell’autobus o di un pacchetto di sigarette.
Mi affretto, e arrivo alla fine di Via San Lorenzo. Davanti a me, adesso, è un tumulto di etnie.
Genova è così da anni, ormai: sotto i portici si alternano vecchi locali italiani e nuovi negozi gestiti da asiatici o sudamericani, che si parli di vestiti o gastronomia, e di fronte un piccolo mercato di frutta e verdura che verso sera viene sempre animato da una vivace musica latina; qualche passo più avanti c’è il Palazzo San Giorgio, una costruzione che mi sta particolarmente a cuore, siccome un tempo vi erano conservate le monete della Repubblica come i Genovini, i Ducati e gli Scudi. Ricordo che gli inglesi furono perfino disposti a pagarci per avere sulla loro Sterlina l’effigie del santo che uccide il drago!
Più avanti ancora svetta il piccolo cartello con la M bianca su sfondo rosso della metropolitana: ultimamente, da quando hanno completato la fermata di Brignole, è tutto più rumoroso ed irrequieto da queste parti; e vogliamo parlare di tutte le macchine che sfrecciano sulla Sopraelevata?
Ogni volta che intralcia la mia vista, impedendomi di ammirare il porto in tutta la sua integrità, non posso fare a meno di fermarmi e rimuginare su come fosse prima.
In passato ti ritrovavi immediatamente al cospetto del mare, sentivi i suoi placidi gorgoglii, ti lasciavi ammaliare dal docile ondeggiare dei gozzi dei pescatori e riconoscevi perfettamente ogni increspatura dell’acqua; quando c’è tanto vento mi appare come una carta velina accartocciata, di un colore verde intenso, simile a quello del pesto battuto nei nostri mortai di marmo.
Senza Sopraelevata, io ed il mare, saremmo rimasti gli sposi scorbutici ed un po’ chiusi di sempre, ma bellissimi, l’uno al completamento dell’altra. Purtroppo, però, una città deve crescere, seguire i ritmi del mondo e cercare di non restare mai troppo indietro.
Vorrei raccontarvela, la storia mia e del mare: di Genova e del suo sposo.
È una storia che non parla di questa Sopraelevata, che è solo uno dei tanti ostacoli fra me e il porto; parla, piuttosto, di come sia facile cadere vittima di gravi errori per chiunque, anche per una città-donna come me.
Aprite bene le orecchie, perché avrete la fortuna di ascoltarla soltanto una volta, e soltanto dalla mia voce.
È una storia di cui soltanto io conosco la trama, e la vera fine.

Correva il tempo antico e sanguinolento dei corsari, quando i galeoni solcavano oceani infiniti e profondi, neri come l’abisso.
Non esistevano mari di cui si potesse vedere il fondo.
Semplici chiazze nere come catrame a separare terre lontane, celarne di sconosciute.
Si narra di una bella fanciulla dai capelli di rame e gli occhi come legno di quercia, di giovane aspetto, ma dal lungo passato.
Aveva una voce da usignolo, ed era solita passare le sue giornate sul promontorio da cui tuttora si erge fiera la Lanterna, cantando per richiamare a casa i marinai, come fosse una sirena. Una sirena buona, al contrario di quanto gli antichi poemi epici ci insegnano.
Nei momenti di quiete, poi, se ne rimaneva ad ascoltare i suoni nervosi del mare, ad osservare le onde nere infrangersi contro gli scogli e lacerarsi in spuma bianca, finché non scendeva la notte.
Quando arrivava il buio, ed il mare si legava al cielo in una macchia di oscurità unica ed indivisibile, la fanciulla smetteva di cantare, invidiosa di quell’unione così perfetta, gelosa della notte, che rapida scendeva e del suo mare si impossessava. 
La chiamavano Ianua, quella fanciulla, perché come la più antica divinità italiana, Giano, lei mostrava due volti: di giorno cantava felice, innamorata di quelle acque così meravigliosamente misteriose, di notte era triste, insoddisfatta del colore delle acque, la voce non osava abbandonare il suo corpo e gli occhi rimanevano assorti in quell’immensità nera, iniettati di invidia.
Una notte, la luce fioca della Lanterna si spense, e Ianua, completamente al buio, si rese finalmente conto di cosa significasse “essere infiniti”; sentì l’invidia ribollirle nel sangue, e rimase fortemente turbata da quell’unione imperterrita di mare e notte, che di fronte ai suoi occhi si consumava.
Quella stessa notte, la fanciulla, decise di cambiare colore al mare.
La leggenda nella leggenda racconta che il mare avesse perso la propria lucentezza e fosse divenuto nero in seguito alle tre guerre puniche, e che nessuno, ovviamente, ricordasse il suo colore originario. Così, Ianua, volle ispirarsi a quel tessuto grezzo e resistente che da qualche anno, in porto, veniva utilizzato per coprire le merci, e scelse il blu.
La fanciulla voleva tornare ad essere la sola sposa del mare, separarlo per sempre dalla notte nera: era nata dalle onde, e dalle onde voleva rimanere avvolta ed incatenata.
La mattina dopo, al porto, due marinai le porsero un saluto e le raccomandarono di andare al promontorio e cantare, anche quando il sole sarebbe scomparso ad ovest.
Ormai cieca d’invidia, Ianua si soffermò soltanto sul colore dei loro occhi: un blu intenso, eppure limpido e luminoso. Il blu del mare.
Riuscì a salutarli a malapena, e solo quando li vide allontanarsi si accorse di un terzo marinaio sul peschereccio; cercò subito di vederlo in volto, ma trovò soltanto la sua schiena ampia e le sue spalle olivastre.
Eppure non volle dare molta importanza al terzo marinaio, e se ne rimase sul promontorio a fissare l’orizzonte, impegnata nello sforzo di ricordare nei minimi dettagli il blu perfetto di quegli occhi.
Cantò, per ore che le parvero interminabili, finché il sole non scomparve.
Verso sera non smise di cantare perché la notte stava per arrivare e averla vinta su di lei ancora una volta: era sicura, Ianua, che il blu fosse il colore del mare anche prima delle guerre puniche, ed immaginandolo così, non poteva far altro che innamorarsi sempre di più, non poteva che essere vilmente disposta a sacrificare la vita di altri, per riavere indietro il suo sposo.
Se smise di cantare, fu proprio per sacrificare quelle vite.
Perso nel buio e nel silenzio creati da Ianua, il peschereccio ci mise poco a schiantarsi contro gli scogli aguzzi e ad essere inghiottito da tumultuose lingue d’acqua scura assieme ai tre marinai.
Dal promontorio, intanto, la fanciulla vide l’acqua farsi a poco a poco più chiara, attingendo dagli occhi dei marinai.
Rise di gusto, quando vide crearsi una linea netta fra il mare e la notte.
Blu: vicino al nero della notte, e all’azzurro del giorno, per schernire il cielo nel migliore dei modi.
Felice, attese il ritorno del sole, con il viso accarezzato dalla brezza fresca e le narici stuzzicate dal profumo di salsedine, gli occhi rivolti ad est.
Quando il sole fu alto in cielo, tutti i mari del mondo erano colorati di blu.
Tutti, tranne quello amato dalla fanciulla.
Se ne rimase a piangere sul promontorio, pallida, con le mani nei capelli, gli occhi feriti da quel colore insolito.
Ianua non aveva mai considerato la possibilità che gli occhi del marinaio dalla pelle olivastra potessero essere di un altro colore, e che quindi non appartenessero al mare.
Ianua non si era resa conto di come l’invidia l’avesse consumata, e di come le avesse rubato il mare del porto, dipingendolo di verde.
Ciò non bastò a farle smettere di amarlo, perché quelle acque restarono lo specchio della sua invidia, della sua anima, solo sue, legate a lei e dai suoi peccati alimentate.
E così, superba, Ianua continuò a contemplarsi, specchiandosi nelle acque torbide, senza mai riuscire a vedere il fondo.

Questa, signori, è la mia storia, la storia di Genova, Ianua, la donna-città, e del mio vero e unico amore: il mare del mio porto.
Non dimenticatela e mi comprenderete. Se mi comprenderete, imparerete ad amarmi.

Luana Musumeci

2 commenti:

  1. Un racconto bellissimo. Complimenti, Luana!

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  2. Grazie a Enzo Costa, che sempre ci segue e sa apprezzare i talenti in erba :-)

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