Pallidi e assorti, noi sposi derelitti
La
città di Genova: inevitabilmente legata al mare, suo unico ed eterno amore, suo
sposo lontano.
Un
amore bizzarro, un amore che, secondo la leggenda, ha teso una trappola a
Ianua, città-donna, e ha permesso che si macchiasse dei peccati umani.
Una
storia mai ascoltata, che proprio Ianua decide di rivelare.
La
leggenda parla di lei, e di quanto fosse grande il suo amore per il mare, di
come questo amore morboso, con le sue sciocche gelosie e le sue infondate
illusioni, l’abbia spinta oltre.
Il
mare del porto genovese, con il suo strano colore, ricorderà per sempre a Ianua
ciò di cui si è macchiata, ciò che tutt’oggi le permette di confondersi perfettamente
fra gli umani: tutti peccatori, tutti con amari errori alle spalle.
Forgiata dal
mare, nutrita dal sudore di uomini che del porto e delle barche fecero
mestiere; sola, nel mio abisso profumato di salsedine, fra i gorgoglii inquieti
delle acque ed i silenzi austeri delle montagne.
Nei
terrazzamenti il basilico odoroso, nei prati incolti il giallo acceso delle
ginestre; terra di sole, di un mare azzurro come il cielo. Terra che incute
timore, quando infuria la tempesta e ferisce la sua pioggia, graffiante, come
gli artigli di un grifone.
Avrete già
sentito parlare di me, della Repubblica che non riconosce superiori: sono
Genova; sono la Superba.
Cammino rasente
a questo muro che per lunghezza pare infinito e che per altezza, di primo
acchito, è almeno due volte più grande di me; lungo tutto il suo seguitarsi
cocci aguzzi di bottiglia riflettono l’intrecciarsi di luci vermiglie e
scarlatte, figlie di un’alba puntuale e silenziosa.
All’improvviso
le mie narici vengono stuzzicate da un profumo così buono da indurmi a fermare
la rapida marcia verso il mare: questa è senza dubbio la focaccia di uno dei
forni che prima dell’alba cuociono i loro impasti. Hanno già aperto: non sia
mai che perdano un cliente!
Mi piacerebbe
essere la prima ad assaporare la focaccia ancora calda, profumata, appetitosa, ma
non posso proprio: devo correre al porto, verso il mio mare, con le navi che
partono e quelle che attraccano.
Il motivo del
mio vanto è anche la ragione della mia spossatezza e della mia eccessiva
irritabilità; la città è il porto, e dà il suo bel da fare ogni giorno.
Per fortuna non
sono molto lontana dalla mia meta: mi basta attraversare solo qualche breve ed
angusto carruggio, nel dedalo del mio centro storico, per raggiungere Via San
Lorenzo.
Qui, le
saracinesche grigie di qualche bar e di qualche tabacchino sono già sollevate
per soddisfare le richieste dei lavoratori più mattinieri: c’è chi ha voglia di
un caffè, chi di un cornetto, o chi semplicemente ha bisogno di un biglietto
dell’autobus o di un pacchetto di sigarette.
Mi affretto, e
arrivo alla fine di Via San Lorenzo. Davanti a me, adesso, è un tumulto di
etnie.
Genova è così da
anni, ormai: sotto i portici si alternano vecchi locali italiani e nuovi negozi
gestiti da asiatici o sudamericani, che si parli di vestiti o gastronomia, e di
fronte un piccolo mercato di frutta e verdura che verso sera viene sempre
animato da una vivace musica latina; qualche passo più avanti c’è il Palazzo
San Giorgio, una costruzione che mi sta particolarmente a cuore, siccome un
tempo vi erano conservate le monete della Repubblica come i Genovini, i Ducati
e gli Scudi. Ricordo che gli inglesi furono perfino disposti a pagarci per
avere sulla loro Sterlina l’effigie del santo che uccide il drago!
Più avanti
ancora svetta il piccolo cartello con la M bianca su sfondo rosso della metropolitana:
ultimamente, da quando hanno completato la fermata di Brignole, è tutto più
rumoroso ed irrequieto da queste parti; e vogliamo parlare di tutte le macchine
che sfrecciano sulla Sopraelevata?
Ogni volta che intralcia
la mia vista, impedendomi di ammirare il porto in tutta la sua integrità, non
posso fare a meno di fermarmi e rimuginare su come fosse prima.
In passato ti
ritrovavi immediatamente al cospetto del mare, sentivi i suoi placidi gorgoglii,
ti lasciavi ammaliare dal docile ondeggiare dei gozzi dei pescatori e
riconoscevi perfettamente ogni increspatura dell’acqua; quando c’è tanto vento
mi appare come una carta velina accartocciata, di un colore verde intenso,
simile a quello del pesto battuto nei nostri mortai di marmo.
Senza
Sopraelevata, io ed il mare, saremmo rimasti gli sposi scorbutici ed un po’
chiusi di sempre, ma bellissimi, l’uno al completamento dell’altra. Purtroppo,
però, una città deve crescere, seguire i ritmi del mondo e cercare di non
restare mai troppo indietro.
Vorrei
raccontarvela, la storia mia e del mare: di Genova e del suo sposo.
È una storia che
non parla di questa Sopraelevata, che è solo uno dei tanti ostacoli fra me e il
porto; parla, piuttosto, di come sia facile cadere vittima di gravi errori per
chiunque, anche per una città-donna come me.
Aprite bene le
orecchie, perché avrete la fortuna di ascoltarla soltanto una volta, e soltanto
dalla mia voce.
È una storia di
cui soltanto io conosco la trama, e la vera fine.
Correva il tempo antico e sanguinolento dei
corsari, quando i galeoni solcavano oceani infiniti e profondi, neri come
l’abisso.
Non esistevano mari di cui si potesse vedere
il fondo.
Semplici chiazze nere come catrame a
separare terre lontane, celarne di sconosciute.
Si narra di una bella fanciulla dai capelli
di rame e gli occhi come legno di quercia, di giovane aspetto, ma dal lungo
passato.
Aveva una voce da usignolo, ed era solita
passare le sue giornate sul promontorio da cui tuttora si erge fiera la
Lanterna, cantando per richiamare a casa i marinai, come fosse una sirena. Una
sirena buona, al contrario di quanto gli antichi poemi epici ci insegnano.
Nei momenti di quiete, poi, se ne rimaneva
ad ascoltare i suoni nervosi del mare, ad osservare le onde nere infrangersi
contro gli scogli e lacerarsi in spuma bianca, finché non scendeva la notte.
Quando arrivava il buio, ed il mare si
legava al cielo in una macchia di oscurità unica ed indivisibile, la fanciulla
smetteva di cantare, invidiosa di quell’unione così perfetta, gelosa della
notte, che rapida scendeva e del suo mare si impossessava.
La chiamavano Ianua, quella fanciulla,
perché come la più antica divinità italiana, Giano, lei mostrava due volti: di
giorno cantava felice, innamorata di quelle acque così meravigliosamente
misteriose, di notte era triste, insoddisfatta del colore delle acque, la voce
non osava abbandonare il suo corpo e gli occhi rimanevano assorti in
quell’immensità nera, iniettati di invidia.
Una notte, la luce fioca della Lanterna si
spense, e Ianua, completamente al buio, si rese finalmente conto di cosa
significasse “essere infiniti”; sentì l’invidia ribollirle nel sangue, e rimase
fortemente turbata da quell’unione imperterrita di mare e notte, che di fronte
ai suoi occhi si consumava.
Quella stessa notte, la fanciulla, decise di
cambiare colore al mare.
La leggenda nella leggenda racconta che il
mare avesse perso la propria lucentezza e fosse divenuto nero in seguito alle
tre guerre puniche, e che nessuno, ovviamente, ricordasse il suo colore
originario. Così, Ianua, volle ispirarsi a quel tessuto grezzo e resistente che
da qualche anno, in porto, veniva utilizzato per coprire le merci, e scelse il
blu.
La fanciulla voleva tornare ad essere la
sola sposa del mare, separarlo per sempre dalla notte nera: era nata dalle
onde, e dalle onde voleva rimanere avvolta ed incatenata.
La mattina dopo, al porto, due marinai le
porsero un saluto e le raccomandarono di andare al promontorio e cantare, anche
quando il sole sarebbe scomparso ad ovest.
Ormai cieca d’invidia, Ianua si soffermò
soltanto sul colore dei loro occhi: un blu intenso, eppure limpido e luminoso.
Il blu del mare.
Riuscì a salutarli a malapena, e solo quando
li vide allontanarsi si accorse di un terzo marinaio sul peschereccio; cercò
subito di vederlo in volto, ma trovò soltanto la sua schiena ampia e le sue
spalle olivastre.
Eppure non volle dare molta importanza al
terzo marinaio, e se ne rimase sul promontorio a fissare l’orizzonte, impegnata
nello sforzo di ricordare nei minimi dettagli il blu perfetto di quegli occhi.
Cantò, per ore che le parvero interminabili,
finché il sole non scomparve.
Verso sera non smise di cantare perché la
notte stava per arrivare e averla vinta su di lei ancora una volta: era sicura,
Ianua, che il blu fosse il colore del mare anche prima delle guerre puniche, ed
immaginandolo così, non poteva far altro che innamorarsi sempre di più, non
poteva che essere vilmente disposta a sacrificare la vita di altri, per riavere
indietro il suo sposo.
Se smise di cantare, fu proprio per
sacrificare quelle vite.
Perso nel buio e nel silenzio creati da
Ianua, il peschereccio ci mise poco a schiantarsi contro gli scogli aguzzi e ad
essere inghiottito da tumultuose lingue d’acqua scura assieme ai tre marinai.
Dal promontorio, intanto, la fanciulla vide
l’acqua farsi a poco a poco più chiara, attingendo dagli occhi dei marinai.
Rise di gusto, quando vide crearsi una linea
netta fra il mare e la notte.
Blu: vicino al nero della notte, e
all’azzurro del giorno, per schernire il cielo nel migliore dei modi.
Felice, attese il ritorno del sole, con il
viso accarezzato dalla brezza fresca e le narici stuzzicate dal profumo di
salsedine, gli occhi rivolti ad est.
Quando il sole fu alto in cielo, tutti i
mari del mondo erano colorati di blu.
Tutti, tranne quello amato dalla fanciulla.
Se ne rimase a piangere sul promontorio, pallida,
con le mani nei capelli, gli occhi feriti da quel colore insolito.
Ianua non aveva mai considerato la
possibilità che gli occhi del marinaio dalla pelle olivastra potessero essere
di un altro colore, e che quindi non appartenessero al mare.
Ianua non si era resa conto di come
l’invidia l’avesse consumata, e di come le avesse rubato il mare del porto,
dipingendolo di verde.
Ciò non bastò a farle smettere di amarlo,
perché quelle acque restarono lo specchio della sua invidia, della sua anima,
solo sue, legate a lei e dai suoi peccati alimentate.
E così, superba, Ianua continuò a contemplarsi,
specchiandosi nelle acque torbide, senza mai riuscire a vedere il fondo.
Questa, signori,
è la mia storia, la storia di Genova, Ianua, la donna-città, e del mio vero e
unico amore: il mare del mio porto.
Non
dimenticatela e mi comprenderete. Se mi comprenderete, imparerete ad amarmi.
Luana Musumeci
Un racconto bellissimo. Complimenti, Luana!
RispondiEliminaGrazie a Enzo Costa, che sempre ci segue e sa apprezzare i talenti in erba :-)
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