lunedì 23 maggio 2016

Anniversario della strage di Capaci

Il 23 maggio di ogni anno si celebra in tutta Italia l'anniversario della strage di Capaci (23 maggio 1992), in cui furono barbaramente uccisi dalla mafia il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e 3 uomini della sua scorta. In questa ricorrenza si ricorda però anche la strage che seguì poco dopo: quella di Via D'Amelio a Palermo (19 luglio 1992), nella quale morì Paolo Borsellino, stretto collaboratore di Falcone, con 5 uomini della sua scorta. E con loro si ricordano tutti coloro che alla lotta per la legalità sacrificarono la vita, celebrando così questo valore e ricordandoci la necessità di combattere per esso, in tutta Italia.
Per celebrare questa giornata, Raistoria ha realizzato uno Speciale raccogliendo alcuni video e articoli riguardanti l'argomento, per permetterci di approfondire un tema di cruciale importanza.  Il primo articolo dello Speciale riporta tutti gli appuntamenti TV sul tema che RaiStoria manderà in onda il 23 maggio 2016.

Vedi anche qui un altro Speciale già realizzato da Raistoria su Falcone e Borsellino, qui lo speciale di RAI Letteratura dedicato all'anniversario.

QUI  puoi rivedere il nostro progetto dello scorso anno, Viaggio nel cuore della mafia.

QUI puoi leggere la nostra inchiesta su Falcone


La Redazione

mercoledì 11 maggio 2016

Maturità 2016 - Classici del '900

In vista dell'esame di stato, proponiamo una raccolta di articoli utili ad affrontare la prima prova di italiano. Buona lettura!

Per definire che cos’è un classico il primo riferimento che viene in mente è il saggio di Italo Calvino Perché leggere i classici (Milano, Mondadori, 1991) al quale si rimanda per una piacevole quanto istruttiva lettura. Tra le molte definizioni di classico presenti in questo libro una si attaglia al caso nostro, ed è quella in cui l’autore scrive che “il tuo classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui”. Antico e moderno – in questa definizione di classico – sono più o meno equivalenti, nel senso che anche uno scrittore vicino a noi nel tempo può entrare a far parte di questa categoria di autori universali: un evergreen della letteratura, insomma, che ci accompagna alla scoperta di temi e questioni che sono indipendenti dal contesto di una letteratura esclusivamente nazionale.
Certo, il tema di maturità, propone – ad esempio nella tipologia A – testi di autori italiani, quasi sempre classici nel modo più tradizionale del termine: storicizzati da una lunga tradizione critica; collocati all’interno di movimenti e correnti; dotati di una loro consolidata fama nel panorama dei grandi della poesia o del romanzo. Così Pirandello e Svevo, Ungaretti e Montale sono inequivocabilmente riconosciuti come dei classici del Novecento perché hanno affrontato e attraversato tutti i grandi temi del loro tempo: la crisi del soggetto e la dissoluzione del personaggio-uomo; la ricerca di un’identità smarrita nel convulso mondo della società in continua e inarrestabile trasformazione; il senso di smarrimento e di inettitudine davanti all’ambizione, all’ipocrisia, alla sfrenata volontà di affermazione della classe borghese; ma anche i drammi delle due guerre mondiali, della dittatura fascista, del dopoguerra e della ricostruzione.
E lo hanno fatto sempre guardando alla dimensione europea e a una valenza universale del loro messaggio tessendo legami con le suggestioni culturali della psicologia e della psicanalisi (Pirandello che legge il libro di Alfred Binet Les altérations de la personnalité; Svevo che legge e traduce alcuni articoli di Freud), con la poesia d’avanguardia (Ungaretti lettore di Mallarmé e dei simbolisti; Montale che attraversa il “contingentismo” di Boutroux), con il contesto letterario contemporaneo.
Molto diverso è invece il caso di figure scolasticamente meno conosciute a causa dei tempi stretti del programma, eppure già inquadrate come autori che potrebbero e dovrebbero essere annoverati come classici nel loro genere. Come collocare ad esempio i romanzi di Federigo Tozzi che ripercorrono con grande sensibilità le problematiche della narrativa psicologica primo novecentesca, oppure la vicenda editoriale di Tomasi di Lampedusa, solitario autore di un capolavoro come Il Gattopardo? E sul versante della poesia: quanto è classico, a suo modo, un libro come i Canti orfici di Dino Campana?
Ma nel Novecento abbiamo avuto anche un classico “per forza” e “per forma”: uno come Umberto Saba che scrive un libro di poesie e lo intitola Canzoniere è, per forza di cose, un vero classico. Se poi le poesie che compone sono ballate, sonetti, odi e canzonette alla maniera di Petrarca e Metastasio, allora anche l’equilibrio formale e la veste metrica rendono classico tutto l’impianto dell’operazione: Saba volle insomma essere tale fin dall’inizio, scartando le ipotesi innovative dell’avanguardia per riprendere i modelli antichi della nostra poesia. Amava l’equilibrio e l’armonia, l’eleganza della semplicità: anzi le andava ricomponendo dentro un’umanità devastata da nevrosi moderne, complessi, colpe ancestrali, conflitti familiari.
La categoria del classico è stata associata a quegli scrittori che hanno trovato già un pieno riconoscimento nei libri di testo, nei manuali scolastici e nelle storie della letteratura: eppure diciamo che Simenon è un “classico del romanzo giallo” o che Isaac Asimov è un classico della fantascienza, contravvenendo con ciò ad una regola critica che forse ora ci appare un po’ troppo stretta, adatta magari per i grandi della letteratura ma inapplicabile sui cosiddetti “minori”. La distanza temporale poi ha reso classici anche quelli che con le regole dell’armonia prestabilita avevano poco a che fare, e un libro meraviglioso come L’Antirinascimento di Eugenio Battisti (Milano, Feltrinelli, 1962) ne mise in luce gli aspetti più significativi: di contaminazione, di rottura e di convivenza tra le forme e gli stili della tradizione con quelli bizzarri dell’innovazione e dell’avanguardia.

Maturità 2016 - Il caso Svevo

In vista dell'esame di stato, proponiamo una raccolta di articoli utili ad affrontare la prima prova di italiano. Buona lettura!

Maggio è tempo di simulazioni! Ma è anche il mese degli autori che hanno fatto il Novecento: Pirandello, Svevo, Montale. Purtroppo si va di fretta e le letture si affollano, si infittiscono, si sovrappongono. Per introdurre la figura e l’opera letteraria di Italo Svevo abbiamo pensato a quel giochetto che si chiama «connecting the dots», unisci i puntini. Può servire anche come percorso di narrazione dentro la poetica di uno scrittore, per l’autore della Coscienza di Zeno come altri. Una mappa, in fondo, non è che una scaletta in altre forme. Uno schema, insomma, che si può impiegare anche in classe come una sintesi di immediato utilizzo. Vediamo però come organizzare alcuni materiali (molto) generali sul romanzo di Svevo.

Una mappa tematica sull'opera di Italo SvevoCollocato ai margini della geografia letteraria italiana, nella Trieste asburgica della fine dell’Ottocento, cronologicamente precedente alle esperienze di Saba, di Michelstaedter, di Slataper, Italo Svevo ha rappresentato in Italia una figura di levatura straordinaria per le sorti della narrativa novecentesca. Tuttavia i suoi romanzi, soprattutto i primi due, Una vita (1892) e Senilità (1898), dovettero subire per numerosi decenni uno strano destino. L’incomprensione della critica militante, il silenzio che circondò la sua opera di romanziere-dilettante, costrinsero Svevo a un lungo periodo di apparente inattività, a un vero e proprio «abbandono» della letteratura.
Personaggio schivo e del tutto alieno da una professionalità di tipo tradizionale, Svevo rifiutò l’estenuazione decadente e la protesta espressionistica delle avanguardie, non subì l’influenza del frammentismo lirico degli scrittori «vociani», non partecipò a quel clima di sovversivismo intellettuale piccolo-borghese tipico della generazione nata negli anni ottanta dell’Ottocento. Nel suo isolamento triestino, la scelta del romanzo gli apparve come l’unica strada percorribile verso lo svecchiamento di una cultura ancora troppo imbevuta di ideali assoluti e di retorica, in sostanza, di dannunzianesimo. In una lettera a Valerio Jahier del dicembre 1927 Svevo scriveva: «Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani)». Fedele e coerente alle letture della giovinezza, Svevo assorbì da Schopenhauer la capacità di cogliere per mezzo della letteratura gli autoinganni dell’individuo, il carattere effimero e inconsistente della volontà umana, l’eterno dominio delle passioni e delle pulsioni. Per questa ragione nella sua narrativa possiamo comunque rintracciare componenti scientifiche e razionalistiche che egli, dopo aver letto Darwin e il naturalismo francese, integra e corregge con la filosofia di Nietzsche e la psicanalisi di Freud. Ma della scienza e del pensiero moderno, Svevo respinse sempre le pretese ideologiche e le spinte totalizzanti: ne accolse invece la novità strategica e gli stimoli artistici, sempre con una forte dose di «dilettantismo» intellettuale. Ed è proprio questa componente della sua cultura, il dilettantismo appunto, a riservare gli spunti più interessanti.

svevoSvevo può fare lo scrittore soltanto negandosi, rinunciando cioè alla funzione tradizionale del letterato, ai suoi presupposti, ai suoi privilegi; sottraendosi al mito dell’artista come creatore di oggetti preziosi, artifex di valori e illusioni. Al contrario, la sua è una letteratura di smascheramenti e di disinganni, coltivata come vizio o pratica igienica e, paradossalmente, come esercizio privato e come silenzio. Dopo diciotto anni trascorsi in banca come semplice e diligente impiegato, Svevo venne assorbito in una redditizia e prestigiosa attività industriale e commerciale, che implicò un abbandono della letteratura, ufficialmente dovuto all’insuccesso di pubblico e di critica di Senilità, il suo secondo romanzo: ma anche in questo caso lo scrittore tradiva di nuovo le buone intenzioni, e continuava a redigere i suoi diari, a prendere appunti, a stendere lavori teatrali e racconti.
In una riflessione scritta nel dicembre 1902, e ora raccolta con il titolo di Pagine di diario e sparse, Svevo rivela, e forse chiarisce meglio anche a se stesso, la ragione di questo abbandono, o sarebbe meglio dire provvisorio accantonamento, della letteratura:
Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che colla penna alla mano [...] mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere.

La scrittura, dopo la rinuncia e la crisi conseguente all’insuccesso di Senilità, assume la fisionomia di una pratica autointrospettiva e privata, volutamente non professionale e antiaccademica. Nonostante la delusione per il mancato successo di pubblico e l’interesse della critica, Svevo continuava a non poter rinunciare all’attività letteraria, fosse anche qualcosa di strettamente privato come il diario e l’autobiografia. E tutto questo non fa che confermare quanto oggi è piuttosto chiaro dai molti documenti privati dello scrittore: e cioè che un’effettiva e definitiva abdicazione nei confronti della letteratura non c’è mai stata. In realtà il silenzio di Svevo tra il 1898 e il 1923 è più un fatto aneddotico che reale: l’attività industriale e commerciale costituisce una sorta di copertura e di occultamento della sua esigenza di essere scrittore. Ancora nelle Pagine di diario e sparse, il 2 ottobre 1899, quindi subito dopo Senilità, Svevo scriveva:
Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente. Si deve tentar di portare a galla dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che non sia il o non sia puro pensiero, che sia o non sia puro sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più. Altrimenti facilmente si cade, – il giorno in cui si crede d’esser autorizzati di prender la penna – in luoghi comuni e si travia quel luogo che non fu a sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c’è salvezza. Chi crede di poter fare il romanzo facendone la mezza pagina al giorno e null’altro, s’inganna a partito.

La vita sarà comunque letteraturizzata: cioè non potrà che ridursi a puro e semplice fatto di scrittura. Come nel caso della Coscienza, appunto, in cui Zeno vive l’esperienza della rappresentazione della propria vita nel senso di un’anamnesi autobiografica e di una scoperta di sé: «Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero», sono le parole del medico psicanalista che ha in cura Zeno, e che invita il paziente in un’operazione di restauro della coscienza e di ricomposizione dell’identità. La definitiva consacrazione di questa idea si ha nelle prove letterarie sveviane successive a La coscienza, ad esempio nelle Confessioni del vegliardo e negli abbozzi intitolati Il vecchione, tutti composti e realizzati in vista di un probabile ritorno al romanzo. Ancora torna la centralità della scrittura come speranza e fiducia estrema nella forza della letteratura: «L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. [...] Io voglio scrivere ancora. In queste carte metterò tutto me stesso la mia vicenda».
Ancora dopo la Coscienza, Svevo tornava a difendere la possibilità della scrittura come unico orizzonte conoscitivo e analitico dell’uomo di fronte alla crisi della realtà contemporanea.
Io non mi sento vecchio ma ho il sentimento di essere arrugginito. Devo pensare e scrivere per sentirmi vivo perché la vita che faccio fra tanta virtú che ho e che mi viene attribuita e tanti affetti e doveri che mi legano e paralizzano, mi priva di ogni libertà. [...] Perciò lo scrivere sarà per me una misura di igiene cui attenderò ogni sera poco prima di prendere il purgante. E spero che le mie carte conterranno anche le parole che usualmente non dico, perché solo allora la cura sarà riuscita.
Un’altra volta io scrissi con lo stesso proposito di essere sincero che anche allora si trattava di una pratica di igiene perché quell’esercizio doveva prepararmi ad una cura psicanalitica. La cura non riuscì, ma le carte restarono. Come sono preziose! Mi pare di non aver vissuto altro che quella parte di vita che descrissi.

Non soltanto la vita avrebbe coinciso, ora più che mai, con la letteratura, ma lo scrivere avrebbe assunto i contorni di una riparazione, di un restauro della vita, e sarebbe diventata una sorta di igiene mentale e di cura di sé.

Vi ricordiamo che nella rubrica Un romanzo a puntate abbiamo pubblicato il riasunto della Coscienza di Zeno, che potete trovare QUI (ricorda: appare prima l'ultima puntata, quindi scorri tutto per partire dalla prima)
La redazione

giovedì 5 maggio 2016

Maturità 2016, prima prova: pronostici e considerazioni sulla TIPOLOGIA A

In vista dell'esame di stato, proponiamo una raccolta di articoli utili ad affrontare la prima prova di italiano. Buona lettura!


Cari fratelli e care sorelle di quinta,
il 22 giugno inesorabilmente si avvicina e con esso sale l’ansia per la prima prova che inaugurerà l’Esame di Stato 2016. Per i maturandi è il momento del toto-autore per l’analisi del testo (tipologia A). Proviamo quindi ad analizzare e interpretare le scelte fatte dal Ministero negli ultimi dieci anni, aiutandoci con le discussioni in corso su forum  e social. Sicuramente da escludere Calvino, scelto a sorpresa dal Miur nel 2015, e forse anche Montale, che negli ultimi dieci anni è uscito ben due volte (nel 2008 e nel 2012). Molto quotato sui social è Pirandello, che non esce dal 2003. Se il Miur decidesse di puntare su una traccia di Pirandello, sarebbero davvero molte le opere tra cui scegliere: da un passo di uno dei suoi romanzi più famosi, fino ad uno stralcio del saggio sull’umorismo, passando per  una delle sue opere teatrali. 
Due nomi che rimbalzano con insistenza sui social sono quelli di Pasolini, un autore le cui tematiche sono ancora attualissime (però forse un po' troppo...), e Umberto Eco, famoso scrittore, semiologo, filosofo e saggista italiano, morto proprio quest’anno, il 19 febbraio 2016. Potrebbe capitare che il Miur stupisca tutti con un autore recente, come ha fatto nel 2013 con Magris. A supporto di questi due pronostici il fatto che non sono mai usciti negli ultimi 13 anni. Stesso motivo per cui puntare su Saba, per ora mai scelto dal Miur, da tenere d’occhio anche Dante che manca dal 2007 (e speriamo continui a mancare, visto che noi ne facciamo solo una scelta antologica in III ). 

Questi gli autori scelti dal Miur negli ultimi 10 anni

• Prima prova Maturità 2015: Calvino, brano tratto da “Il sentiero dei nidi di ragno”
• Prima prova Maturità 2014: Quasimodo, Ride la gazza, nera sugli aranci
• Prima prova Maturità 2013: Magris, Prefazione di L’infinito di viaggiare
• Prima prova Maturità 2012: Montale, Ammazzare il tempo
• Prima prova Maturità 2011: Ungaretti, Lucca
• Prima prova Maturità 2010: Primo Levi, Prefazione di Ricerca delle Radici
• Prima prova Maturità 2009: Svevo, Prefazione di La coscienza di Zeno
• Prima prova Maturità 2008: Montale, Ripenso il tuo sorriso
• Prima prova Maturità 2007: Dante, Paradiso XI
• Prima prova Maturità 2006: Ungaretti, L’isola

Una serie di autori, molto importanti, non sono mai stati selezionati dal Ministero per la prima prova. Per questo vanno tenuti seriamente in considerazione. Basti pensare che lo scorso anno il Miur ha optato per Calvino, autore mai uscito prima.

Ecco gli autori mai scelti dal Miur

• Pascoli
• D’Annunzio
• Saba
• Carlo Emilio Gadda
• Pavese
• Sciascia
• Pasolini

Gli ultimi tre, però, difficilmente si approfondiscono in classe, ma ci sta la proposta di un'analisi e comprensione del testo, fattibile anche se non conosciamo troppo bene l'autore. Sarebbero una manna i primi due autori del decadentismo italiano (D'Annunzio e Pascoli) e fattibile anche Saba, con tutti i possibili collegamenti (Trieste, leggi razziali, poesia pura, seconda guerra mondiale...)

Da tenere d’occhio anche le ricorrenze del 2016, sia storiche che letterarie, che potrebbero essere prese come spunto per l’analisi del testo della prima prova.

• 790 anni fa muore San Francesco d’Assisi (3 ottobre 1226) ---> poco probabile, però
• 190 anni fa nasce Carlo Collodi (24 novembre 1826) ---> Pinocchio, letteratura per ragazzi...
• 120 anni fa nasce Eugenio Montale (12 ottobre 1896) ---> bello, ma già inflazionato
• 110 anni fa nasce Dino Buzzati (16 ottobre 1906) ---> però in classe non si fa
• 80 anni fa muore Luigi Pirandello (10 dicembre 1936) ---> MAGARI!!!
• 80 anni fa muore Grazia Deledda (15 agosto 1936) ---> verismo, donna che vince Nobel...

Insomma, se dovessimo scommettere punteremmo su

Pirandello
Pasolini
Saba
Eco


Se volete ripassare questi ed altri argomenti, fatevi un giro sul PADLET della nostra direttrice, e non dimenticatevi che abbiamo pubblicato a puntate la sintesi de IL NOME DELLA ROSA di Eco! 



La Redazione

mercoledì 4 maggio 2016

Un romanzo a puntate - IL NOME DELLA ROSA - Ultima puntata (SETTIMO GIORNO) + personaggi + stile


QUI la settima puntata

SETTIMO GIORNO

Notte
Nella stanza del finis Africae trovano Jorge seduto a un tavolo nel mezzo della stanza, che stava aspettando Guglielmo. A questo punto si scopre tutta la verità sugli omicidi di quei giorni. Anni prima, Jorge aveva rubato a Severino il veleno e, prima che Venanzio fosse riuscito ad entrare nel finis Africae e a sottrarre il libro, aveva spennellato sulle pagine del libro il suddetto veleno, in modo che chi volesse leggerlo, inumidendosi le dita per sfogliare i libro, di fatto, si suicidava. Così fa Venanzio, che, preso da un malore, era andato nelle cucine a bere un po’ d’acqua, ma pochi istanti dopo muore, infrangendo a terra la tazza. Berengario lo trova morto e allora, temendo che si apra un’indagine, poiché nessuno doveva entrare di notte nell’Edificio, e non sapendo cosa fare, si carica il corpo in spalla e lo butta nell’orcio del sangue, pensando che tutti si convincessero che era annegato. Poi, incuriosito dal libro, va nell’ospedale e lo legge. Dopo un po’, non sentendosi molto bene, va nei balnea per alleviare il dolore, come gli aveva suggerito più volte Severino. Ma lì muore per avvelenamento, lasciando il libro incustodito nell’ospedale fra quelli di Severino. L’erborista lo ritrova e, nel nartece, avvisa Guglielmo. Ma Jorge era vicino ai due e aveva sentito tutto, così fa credere a Malachia che Severino si fosse concesso a Berengario per il libro, e il gelosissimo bibliotecario lo uccide. Neanche Malachia però resiste alla tentazione di leggere il libro e muore in chiesa, mentre sta cantando. L’ultima vittima è l’Abate, che muore lentamente nel passaggio segreto che conduce al finis Africae, perché Jorge aveva reso inutilizzabili i meccanismi di apertura e chiusura delle porte. Il movente che spinge Jorge ad uccidere ben sei confratelli è impedire la lettura e quindi la divulgazione dell’unica copia del secondo libro della Poetica di Aristotele, dove l’autore, di grandissima fama e godente di grande rispetto da tutti, giustifica il riso e lo eleva ad arte: in questo modo, secondo Jorge, se si accettasse e apparisse nobile l’arte dell’irrisione, essa distruggerebbe il principio di autorità e sacralità del dogma. Guglielmo accusa Jorge di essere un assassino e poi addirittura il diavolo, ma il vecchio è sicuro di essere nel giusto.
Notte
Allora, accortosi che ormai è condannato, Jorge strappa e mangia ad una ad una le pagine del libro. Poi, spento il lume, scappa lontano da quella stanza, mentre Guglielmo ed Adso escono a fatica dal finis Africae. Lo rincorrono e lo trovano per terra, gli si avventano con impeto ma quello riesce a prendere il lume e a buttarlo su un ammasso di libri. Così in poco tempo tutta la biblioteca va in fiamme, mentre tutti i famigli corrono di qua e di là concludendo poco e niente. In men che non si dica tutta l’abbazia, che è costruita in buona parte in legno, viene a contatto con le fiamme, grazie anche ad un vento che contribuisce ad alimentare le fiamme.
ULTIMO FOLIO
L’abbazia arde per tre giorni e tre notti. Guglielmo ed Adso, giunti a Monaco, dove sarebbe arrivato l’imperatore, si separano per sempre e Guglielmo, oltre a dargli molti buoni consigli per gli studi, gli regala le lenti che gli aveva fabbricato Nicola. Guglielmo da Baskerville è morto durante la grande peste che ha investito l’Europa intorno al 1350. Anni dopo l’incendio dell’abbazia, Adso vi è tornato per rivisitare ciò che vi era rimasto, che non era molto: è riuscito a trovare dei fogli che ha custodito gelosamente come reliquie fino alla morte.
AMBIENTAZIONE STORICA E GEOGRAFICA
Essendo un manoscritto in cui l’autore lascia ai posteri testimonianza dei fatti accadutigli nel periodo della sua giovinezza, la durata del filone principale (cioè quello in cui Adso si accinge a scrivere: «Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo […] mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere») è imprecisata («possiamo congetturare che il manoscritto sia stato stilato negli ultimi dieci o vent’anni del XIV secolo», come ci dice Eco nell’introduzione), mentre i fatti che lui racconta si svolgono verso la fine del novembre 1327 e hanno una durata di sette giorni. La narrazione è suddivisa per giorni e ogni giorno è diviso in periodi corrispondenti alle ore liturgiche secondo la regola benedettina.
Il contesto storico è ricostruito molto bene: nel 1314 a Francoforte viene eletto supremo reggitore dell’impero Ludovico di Baviera, mentre contemporaneamente viene anche eletto imperatore Federico d’Austria. Due anni dopo diventa papa Giovanni XXII, che non riconosce nessuno dei due come imperatore e, quando Ludovico batte Federico, il papa lo scomunica; immediatamente l’imperatore denuncia il papa come eretico. Inoltre in quegli anni l’ordine francescano, nelle figure degli “spirituali”, voleva ritornare alla purezza originale e perciò fanno loro l’ideale di povertà, affermando la povertà di Cristo, e condannano la ricchezza terrena della chiesa. Questo a Giovanni XXII non piacque affatto e li dichiarò eretici perché rivendicava il diritto di eleggere i vescovi, che aveva l’imperatore. Alché Ludovico appoggiò le tesi degli spirituali, facendoseli amici per contrastare il papa. Adso segue in Italia il padre, che era uno dei baroni fedeli all’imperatore, perché fosse presente all’incoronazione dell’imperatore a Roma, mentre alla fine dell’avventura all’abbazia Adso e Guglielmo si recano a Monaco, intuendo che l’imperatore sarebbe giunto in breve tempo lì, poiché, dopo l’incoronazione, era stato cacciato da Roma e anche a Pisa aveva sempre meno alleati. Negli anni successivi, Ludovico vide l’alleanza dei signori ghibellini disfarsi e l’anno dopo l’antipapa che aveva nominato si era arreso al papa.
Gli eventi che si raccontano avvengono in una non meglio precisata ricca abbazia benedettina dell’Italia settentrionale, «in una terra […] i cui signori erano fedeli all’impero e dove gli abati del nostro ordine di comune accordo si opponevano al papa eretico e corrotto.» Dalle informazioni che ci fornisce Adso quando va a cercare i tartufi con Severino («Il mattino del nostro arrivo, quando già eravamo tra i monti, a certi tornanti, era ancora possibile scorgere, a non più di dieci miglia e forse meno, il mare») ne traiamo che l’abbazia deve trovarsi da qualche parte della Liguria, poiché solo in questa regione settentrionale c’è il mare a breve distanza dalle montagne (mentre in Veneto ed Emilia Romagna c’è la pianura). È anche lo stesso Eco che, nell’introduzione, dice che «le congetture permettono di disegnare una zona imprecisa tra Pomposa e Conques, con ragionevoli probabilità che il luogo sorgesse lungo il dorsale appenninico, tra Piemonte, Liguria e Francia». L’abbazia, circondata da una cinta di mura, è situata su un pianoro sulla sommità di un monte; è composta da vari edifici, il più importante dei quali per la vita dell’abbazia è l’Edificio, dove al primo piano ci sono le cucine e il refettorio, al secondo piano c’è lo scriptorium e al terzo c’è la biblioteca, a cui poteva accedere solo il bibliotecario e il suo aiutante (questo solo in teoria). Inoltre c’erano l’orto e il giardino botanico, i balnea, l’ospedale, la chiesa, il chiostro, la casa dell’abate, il dormitorio e la casa dei pellegrini; sul lato orientale c’erano una serie di quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine. L’intero complesso era orientato secondo precisi dettami architettonici. Nella narrazione prevalgono i luoghi chiusi e un ruolo particolare è svolto dalla biblioteca, posto su cui è puntata la maggiore attenzione per tutta la durata della vicenda.
Qui sotto è presente lo schema della disposizione degli edifici dell’abbazia, presente nella prima pagina del libro.

La complicata costruzione della biblioteca è spiegata nel corso del riassunto.
PERSONAGGI

Adso da Melk
Di origini tedesche, è il narratore interno. All’epoca degli avvenimenti è un novizio benedettino giunto in Italia insieme al padre, barone fedele all’imperatore, perché fosse presente all’incoronazione di Ludovico a Roma, ma affinché non oziasse, su consiglio di Marsilio da Padova, segue un dotto francescano, Guglielmo da Baskerville, nella missione di mediare tra una delegazione pontificia ed una francescana, facendogli da scrivano e da discepolo. Di questo suo maestro ha molta ammirazione sia per l’acutezza della mente che per il fascino della parola, ma quando non lo conosce ancora bene, lo critica per i momenti di totale inattività, mentre in seguito capisce che «quanto più il suo corpo era disteso, tanto più la sua mente era in effervescenza.» Dopo aver peccato con la ragazza, il suo animo è combattuto tra due sentimenti opposti: da una parte «il mio intelletto la sapeva fomite di peccato», dall’altra «il mio appetito sensitivo l’avvertiva come ricettacolo di ogni grazia.» È curioso, ha molta voglia di apprendere, come quando non ha pace finché trova Ubertino e gli chiede di raccontargli di fra Dolcino; in certe occasioni è anche impulsivo, come quando vorrebbe salvare la ragazza dagli arcieri e Guglielmo lo trattiene più di una volta. Si può notare che nel corso della storia partecipano due Adso: l’actor, giovane e che non capisce ancora bene certe cose («[..] concluse Guglielmo, che era troppo filosofo per la mia mente adolescente»), e l’auctor, anziano che usa il libro anche come sfogo «per liberare la mia memoria appassita e stanca di visioni che per tutta la vita l’hanno affannata»: naturalmente solo quest’ultimo è onnisciente e comprende comportamenti e azioni che l’Adso giovane non si spiegava.

Guglielmo da Baskerville
È il protagonista del racconto. È un uomo alto e magro, ha occhi acuti e penetranti, il naso affilato e un po’ adunco, sopracciglia folte e bionde, il viso allungato e coperto di efelidi; ha circa cinquant’anni, ma nonostante questo si muove con grande agilità. È molto dotto in qualsiasi campo, dall’erboristeria alla filosofia, dal greco alla teologia. Anni prima era stato inquisitore, ma poi aveva abbandonato la sua carriera per vari motivi, tra cui il fatto che non gli piaceva torturare gli accusati perché, dice, «sotto tortura vivi come sotto l’impero di erbe che danno visioni» e, oltre a dire la verità, dicono anche ciò che ritengono che l’inquisitore voglia sentire: quindi l’inquisitore non cerca la verità, ma una persona da incolpare e poi bruciare. Dall’esperienza di inquisitore derivano le sue grandi capacità deduttive, tanto che il giorno in cui arriva all’abbazia, incontrando il cellario e diversi famigli provenienti di là, indovina che stavano cercando Brunello, il miglior cavallo della scuderia. Purtroppo in questa vicenda la sua prontezza di deduzioni non è così “pronta”, e non riesce ad impedire che, oltre ad Adelmo, vengano uccisi altri cinque monaci prima di scoprire l’assassino. Comunque da solo non avrebbe concluso granché: infatti è Alinardo che gli svela come entrare nell’Edificio di notte, è Venanzio che gli svela come entrare nel finis Africae attraverso un rompicapo cifrato, è grazie ad Adso che gli viene in mente cosa significasse quel messaggio; d’altra parte è anche vero che è lui a decifrare il suddetto messaggio, è lui a scoprire la disposizione delle stanze della biblioteca guardando l’Edificio dall’esterno, è lui a fare le ipotesi giuste, ed è infine lui a smascherare il colpevole. Ma il suo compito primario non era quello di indagare in queste misteriose morti, bensì era stato inviato dall’imperatore in quell’abbazia per fare da mediatore tra una delegazione francescana e una papale. Egli rappresenta gli innovatori.

Jorge da Burgos
«Un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era ceco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possiede solo il dono della profezia.» Egli è il più vecchio tra i monaci dell’abbazia, dopo Alinardo, e conosceva tutti segreti dell’abbazia meglio di chiunque altro, anche dell’abate. Fu lui a far eleggere Abbone come abate e Roberto da Bobbio e Malachia come bibliotecari, che erano ai suoi ordini, per continuare a governare segretamente l’abbazia per quarant’anni. È per difendere l’inviolabilità del II libro della poetica di Aristotele, unica copia al mondo, che giustifica e apprezza il riso, che Jorge lo cosparge di veleno e provoca la morte di tutti coloro che lo hanno sfogliato. Tecnicamente non è lui l’assassino, in quanto chi sfogliava le pagine del libro ingoiava il veleno suicidandosi, e lui non si ritiene tale quando Guglielmo lo accusa, ma accetta il rischio della dannazione. Rappresenta i conservatori.

Bernardo Gui
È un personaggio realmente esistito, noto inquisitore che scrisse un manuale per agevolare i suoi colleghi, la “Practica officii inquisitionis heretice pravitatis”, che viene anche citata nel capitolo vespri del terzo giorno. Nel romanzo è al tempo stesso al comando dei soldati francesi e membro della legazione pontificia. Ecco come lo descrive Adso la prima volta che lo vede: «Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta». Durante la sua permanenza all’abbazia viene incaricato di scoprire l’assassino e fa confessare a Salvatore crimini che non aveva commesso. Infatti il suo obiettivo non è scoprire la verità, ma trovare un colpevole a tutti i costi, praticando la tortura. Lui rappresenta la vera mala pianta dell’epoca, che non è la genie di fraticelli eretici, ma è chi mandava al rogo delle persone innocenti, vedendo streghe dappertutto: per questo è l’acerrimo nemico di Guglielmo.

Personaggi minori
L’abate Abbone, gli altri monaci dell’abbazia, tra cui Remigio, il cellario, Salvatore, Nicola, mastro vetraio, Severino, erborista, Malachia, il bibliotecario, Bencio, Berengario, il gruppo degli italiani (costituito da Alinardo, il più vecchio di tutta l’abbazia, Aymaro, Pietro e Pacifico), Venanzio, i membri delle due legazioni, tra cui spiccano Michele da Cesena e il cardinal Bertrando e i centocinquanta famigli che lavorano all’abbazia.

LINGUAGGIO E STILE

Umberto Eco, nel primo capitolo del libro intitolato “Naturalmente, un manoscritto” (quel “naturalmente”, in tono ironico, fa già intuire che sia una finzione stilistica), afferma di aver tradotto in italiano una traduzione di un manoscritto del XIV secolo scritto da un certo Adso da Melk, ma noi sappiamo che in realtà è solo un artifizio stilistico per parlare nel Medioevo, non solo del Medioevo.
Il tono predominante è drammatico e referenziale; solo a volte esso diviene ironico, per opera di Guglielmo (la famosa comicità inglese). La sintassi è prevalentemente semplice, mentre il lessico è più complesso: nel testo sono presenti arcaismi, termini insoliti, astrusi termini religiosi o propri di altre discipline specifiche; inoltre si trovano frasi in latino, tedesco e spagnolo, e tutte queste lingue si trovano mescolate insieme nelle parole di Salvatore.
Nel romanzo coesistono parti narrative che si alternano a lunghe digressioni di carattere filosofico, teologico e storico. Sono frequenti le descrizioni di scene ma anche di personaggi, molto lunghe, come quella del sogno fatto da Adso. Sono presenti in egual misura il discorso diretto e quello indiretto, ma, mentre alcuni capitoli sono quasi esclusivamente raccontati (per esempio quello in cui Adso fa delle riflessioni sulla storia del suo ordine e sul destino dei libri o dove si riassumono i principali eventi del secolo), in altri ci sono solo dialoghi.
Eco ha usato la tecnica dell’intertestualità, che consiste nella ripresa, spinta fino alla citazione più o meno letterale, di espressioni o brani ricavati da altri testi, di varia origine e provenienza, come l’Apocalisse, i Vangeli, il Cantico dei Cantici e diversi altri filosofi antichi e medievali.


martedì 3 maggio 2016

Un romanzo a puntate - IL NOME DELLA ROSA - Settima puntata (SESTO GIORNO)


QUI la sesta puntata

SESTO GIORNO

Mattutino
La mattina, come al solito, tutti i monaci si dirigono in chiesa per l’ufficio di mattutino, ma questa volta Malachia non c’è. Tutti temono il peggio, ma dopo un po’ egli arriva. Però, poco dopo il suo arrivo, cade a terra, moribondo. Guglielmo fa appena in tempo ad udire le sue ultime parole sul potere di mille scorpioni che qualcosa, forse il libro, ha. Anche il bibliotecario ha le dita e la lingua nerastre.
Laudi
L’Abate nomina Nicola come nuovo cellario e ordina a Bencio di sorvegliare che i monaci continuino il loro lavoro nello scriptorium e che nessuno entri in biblioteca. Alla chiusura della biblioteca ci avrebbe pensato l’Abate. Intanto sembra che il gruppo degli italiani, composto da Aymaro, Alinardo, Pacifico e Pietro, stia tramando per deporre l’Abate.
Prima
Per parlare a Nicola, Guglielmo e Adso lo seguono nella cripta dove sono custodite le ricchezze dell’abbazia, e quello racconta loro delle successioni di abati e bibliotecari avvenute in passato e di come il bibliotecario divenga automaticamente abate, fatta eccezione per Abbone, in quanto era stato raccomandato. Prima di lui c’era stato Paolo da Rimini, mentre bibliotecario era Roberto da Bobbio, il quale aveva un’aiutante; dopo quest’ultimo divenne bibliotecario Malachia. Poi Nicola mostra ai visitatori le meravigliose reliquie custodite nella cripta, ma Guglielmo insinua che non tutte siano originali. Infine Guglielmo va nello scriptorium a leggere dei libri che aveva già preso.
Terza
Adso va in chiesa a pregare per l’anima di Malachia, ma si addormenta mentre si canta il “Dies irae” e ha una visione, o sogno che sia, in cui molti personaggi, tra cui alcuni della Bibbia e dell’abbazia, partecipano ad una pazza festa.
Dopo terza
Risvegliatosi, Adso trova Guglielmo che saluta i francescani, i quali stanno per partire. La delegazione papale, invece, era già andata via mezz’ora prima. Poi gli racconta il suo sogno e Guglielmo gli ricorda che la trama del sogno è la stessa della Coena Cypriani, che appartiene alla tradizione dei ioca monachorum, proibita dai maestri dei novizi. Dice che trova il sogno rivelatore per una sua ipotesi.
Sesta
Guardando il catalogo dei libri e notando la differente grafia nel corso degli anni (in quanto i libri sono ordinati per anno di arrivo all’abbazia), Guglielmo riesce a ricostruire gli avvicendamenti dei bibliotecari e intuisce che, dopo Paolo da Rimini ma prima di Roberto da Bobbio, è stato bibliotecario un’altra persona, la stessa che Alinardo odia perché gli aveva rubato l’incarico, ingraziandosi l’abate portando molti libri da Silos. Poi Bencio confessa di temere per la sua vita a causa del gruppo degli italiani, che non vogliono bibliotecari stranieri, ma Guglielmo lo rassicura e apprende da lui che la parte in greco del libro che cerca è fatta da fogli di pergamina de pano, un materiale che fanno in pochi posti.
Nona
Quindi Guglielmo e Adso vanno a parlare all’Abate, che li invita nella sua casa. Guglielmo gli espone le sue supposizioni su qualcuno che ucciderebbe per nascondere un libro nascosto nel finis Africae e gli chiede se conosce una persona che sa sulla biblioteca quanto, se non più, di lui. Ma Abbone, invece di rispondergli, lo congeda bruscamente dicendogli di partire la mattina successiva e che avrebbe risolto la faccenda per conto proprio. A quel punto Guglielmo esce non poco adirato e decide che quella notte avrebbe scoperto il mistero dell’abbazia, che l’Abate voleva celare per salvare l’onore di essa. In quel momento vedono diversi monaci affollarsi davanti alla residenza abbaziale e alcuni entrarvi, alchè capiscono che l’Abate ha preso in mano la situazione. Poi Guglielmo ordina ad Adso di sorvegliare le stalle perché, seguendo la pista dei versetti dell’Apocalisse, la sesta tromba ha a che fare con i cavalli, mentre il maestro va a riposarsi.
Tra vespro e compieta
A vespro, in chiesa, mancano Jorge e Alinardo, ma solo il primo non si trova, l’altro è infermo: per questo l’Abate è inquieto e molto nervoso. Dopo cena ordina a tutti con estrema severità di non aggirarsi per l’abbazia quella notte. Nonostante ciò Guglielmo e Adso entrano in chiesa.
Dopo compieta

I due aspettano per un’ora che l’Abate esca dall’ossario dopo aver chiuso le porte dell’Edificio, ma ciò non avviene, così vanno alle stalle e qui, per caso, Adso cita una frase di Salvatore (“tertius equi”) che fa illuminare Guglielmo. Allora lo fa andare a prendere i lumi e in chiesa gli spiega il significato della misteriosa frase di Venanzio («Secretum finis Africae manus supra idolum age primum et septimum de quatuor»), che si riferisce alle lettere Q ed R della parola “quatuor”, la quale fa parte del cartiglio sopra lo specchio nella stanza cieca del torrione meridionale. Arrivati alla fine del passaggio che passa per l’ossario, sentono dei colpi provenire dall’interno del muro e intuiscono che qualcuno per andare al finis Africae ha usato un’altro passaggio segreto, oltre lo specchio, e vi è rimasto intrappolato perché un altro, da sopra, deve avere bloccato il meccanismo. Finalmente riescono ad aprire il passaggio per il finis Africae attraverso lo specchio spingendo le lettere Q ed R ed entrano nella stanza segreta.